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UN ARTICOLO CHE NON LEGGERETE MAI SU REPUBBLICA: BLACKBLOC E LOTTA SOCIALE

Ultimo Aggiornamento: 10/09/2011 08:10
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10/09/2011 08:10
 
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Anononymouse
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L’incipit è sempre la parte più difficile. Si potrebbe iniziare con “Uno spettro si agita per l’Europa: il Black bloc”, oppure con “Il vero Black bloc sono loro”...
Forse il più fedele dei modi per cominciare a parlare del “blocco nero” è porsi una domanda: cos’è realmente il Black bloc?
Anzitutto una questione linguistica: quando se ne parla si dovrebbe usare il singolare, e non il plurale, per renderne fedelmente una caratteristica sostanziale: il Black bloc è una pratica, non un’organizzazione di cui siano tracciabili e identificabili gli aderenti – “i black bloc”. Inoltre esso ha una sua genesi, una sua realtà storicamente determinata e contestualizzata e una teorizzazione di fondo.
“La loro prima apparizione risale alle manifestazioni contro la guerra del Golfo nel 1991 negli Stati Uniti. Il nome fa senza dubbio riferimento allo “Schwarz bloc”, i “blocchi neri” costituiti negli anni Ottanta dagli autonomi di diverse città della Germania e di Zurigo per difendere gli squat contro la polizia o combattere le attività neonaziste. Ma è il 30 novembre 1999, in occasione delle manifestazioni contro il congresso dell’OMC a Seattle, che i Black bloc cominciano veramente a far parlare di sé” [Detour, la canaglia a Genova, Il Sottovoce, Genova 2006]. A Seattle, tappa importante di quel movimento alter/anti/new-globalista che ha attaccato e scosso le fondamenta del neoliberismo tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del nuovo millennio, il Black bloc si produce in quella pratica che sarà riconosciuta anche dai media che se ne occupano – inizialmente con quel tanto di buona fede dovuta a fenomeni che si conoscono solo parzialmente, o non si conoscono affatto: gruppi di individui nerovestiti e mascherati attaccano i simboli dell’economia capitalistica allo scopo di creare TAZ, Zone Temporaneamente Autonome, ovvero sottratte al controllo di Stato, padroni e polizia. Ciò, in termini spicci, si traduce nella distruzione di vetrine, nella risignificazione delle facciate degli edifici – grandi fogli bianchi (grigi) su cui tracciare le proprie parole di libertà e anarchia –, nell’attacco “mordi-e-fuggi” alle forze dell’ordine. L’obiettivo è attaccare il capitalismo nelle sue manifestazione ed espressioni più visibili e a portata di mano, sfuggendo al contempo la repressione con una tattica che predilige il modello della guerriglia urbana a quello dello scontro frontale.
Che l’analisi – e la pratica politica conseguente – siano condivisibili o meno è una questione che qui poco importa. Ciò che conta è definire l’ambito dell’espressione e saperne poi riconoscere l’oggetto. Provare a ricostituire il rapporto tra significante e significato: ciò che puntualmente i media evitano di fare, ricorrendo a facili etichettature che hanno il fine di fabbricare un feticcio, uno spauracchio con cui impaurire l’opinione pubblica e alimentare il paradigma “buoni vs cattivi”.

GENOVA 2001: BLOCCO NERO E TUTE BIANCHE

A Genova il movimento che stava forgiandosi nei controvertici mondiali raggiunge la propria acme: centinaia di migliaia di persone invadono la città con una frase semplice ma di forte impatto: “Voi G8, noi 6 miliardi”. Si porta in piazza la consapevolezza di un sistema politico-economico allo sfascio, non più sopportabile, in cui pochi presunti “grandi” pretendono di prendere impunemente le loro decisioni sulla pelle di miliardi di persone.
All’appuntamento risponde una impressionante varietà di soggetti; una composizione reale di abissali differenze vede in piazza associazionismo laico e cattolico, partiti della cosiddetta “sinistra radicale” (Rifondazione Comunista su tutti), sindacati, militanti espressione di una miriade di realtà territoriali, italiane e non, e dei più vari orientamenti politici. Ci sono eredi dell’autonomia, anarchici, e le cosiddette “tute bianche”, espressione collettrice dei centri sociali – principalmente del nord-nordest – firmatari della carta di Milano, cani sciolti.
E poi c’è il Black bloc. Gli incappucciati si producono in azioni rivolte principalmente contro edifici e strutture simbolo del potere economico e commerciale, e saccheggiano due supermercati (per procacciarsi viveri e alcolici, principalmente) e un negozio di accessori per moto (dove trovano caschi, catene e quant’altro possa essere utile alle loro azioni). Perché “la proprietà privata è infinitamente più violenta di qualsiasi azione condotta contro di essa” [comunicato del collettivo ACME, pubblicato in “L’Oiseau tempete”, inverno1999-2000]. Si servono inoltre dell’arredo urbano per la costruzione di barricate che siano d’intralcio alle forze dell’ordine. Che però non li caricano: preferiscono vigliaccamente prendersela con i manifestanti pacifisti, inermi, “armati” solo delle loro mani dipinte di bianco.
Che ciò dipenda dall’abilità dei “black blockers” nell’evitare il contatto, svanendo un istante dopo aver compiuto l’azione voluta, o da infiltrazioni al loro interno delle guardie, è questione non secondaria; la pratica consolidata degli uomini in divisa è probabilmente andata, a Genova, un po’ oltre il consueto. Contribuire alle devastazioni degli uni per massacrare gli altri e dare una lezione, stroncandolo, a quel movimento che tanta strada stava dimostrando di poter fare. Facendoci, magari, scappare pure il morto.
Carlo Giuliani è un cane sciolto, ammazzato mentre partecipa attivamente agli scontri in piazza Alimonda. Non è sicuramente “uno dei loro”, come si precipita a precisare il leader delle Tute bianche genovesi, Matteo Jade, che rilascia un’intervista al Corriere della Sera in cui spiega: “Di sicuro, era uno squattrinato cronico. Ogni tanto frequentava i Centri sociali; lo Zapata, o il Terra di nessuno. Ma lo si vedeva solo per i concerti, e non pagava mai”. Da allora il cadavere scomodo è diventato vessillo da agitare e rivendicare. Le Tute bianche sono le stesse, poi, che, dopo aver dichiarato guerra ai grandi della Terra, sono andate a Genova armate di gommapiuma e plexiglass, portandosi dietro uno stormo di manifestanti ignari e impreparati ad affrontare la prevedibile reazione al tentativo di “sfondamento non violento della zona rossa (!)”. L’“estetica” e la mimica del conflitto si sono questa volta ritorte contro chi ne aveva fatto un mantra. A trafficar col lupo, l’agnello prima o poi ci rimette la pellaccia...

VALSUSA 2011: DOVE STA IL BLACK BLOC?

Negli anni successivi, nel panorama frammentato di un movimento impegnato a liberarsi dei fantasmi di Genova, tutti i media mainstream hanno fatto del “black bloc” un’etichetta buona per tutte le stagioni. Con una tecnica fin troppo rodata – che consiste nell’isolare un’espressione sufficientemente demonizzata, decontestualizzarla e utilizzarla a proprio uso e consumo al fine di innalzare la tensione quando serva, o reggere la coda alle manovre repressive e alle politiche securitarie –, i quotidiani, le televisioni, le radio, le riviste ci hanno martellato con un’unica formula ipnotica: “black bloc”. Formula che ha rilevato negli anni 2000 espressioni più desuete e ormai poco funzionali alla causa quali “autonomi”, “esponenti dei centri sociali” (tutt’ora in voga, per la verità, come anche la seguente – dipende dalla temperie storico-politica), “anarco-insurrezionalisti”, “no global”. Così ogni espressione di rabbia, insofferenza verso il sistema, rivolta – direttamente politica in quanto declinazione particolare della lotta di classe – è stata “spiegata” ai cittadini con il sempiterno frame dell’irruzione violenta di teppisti nerovestiti che “inquinano” manifestazioni pacifiche e democratiche (vedi le operazioni tentate dal partito-Repubblica in occasione del 14 dicembre a Roma – per il tramite del tuttologo “maestro dei giovani” Saviano – e del 3 luglio in Val di Susa, solo per fare due esempi...).
Il meccanismo ricorda troppo da vicino quello cui i media ci hanno da tempo abituati nelle loro campagne per la sicurezza: di tanto in tanto, una ben determinata etnia “impazzisce” e si rende responsabile dei più turpi crimini, il tutto nel giro di un delimitato periodo. I “marocchini”, gli “albanesi”, i “rumeni” e, ultimamente, i “rom”, occhieggiano dalle pagine dei quotidiani e dagli schermi televisivi offrendosi come comodi capri espiatori per il disagio sociale, come “mostri” pronti all’uso e funzionali alla repressione e come diversivi per altre tematiche quali la crisi economica.
Fortunatamente, il giochino sembra non riuscire più tanto bene. Sempre più spesso questi bassi stratagemmi vengono sbugiardati e rispediti al mittente, con levate di scudi controinformativi che hanno costretto, ad esempio, la “coscienza critica” del Pd – si parla sempre di Repubblica, ovviamente – a fare marcia indietro sulla trattazione degli scontri del 14 dicembre a Roma dando voce alle analisi sociologiche di Diamanti e rimettendo temporaneamente il buon Saviano in naftalina. Gli ultimi mesi testimoniano, inoltre, di una ripresa della conflittualità sociale e di un “superamento del lutto” rappresentato da Genova che rincuorano. La lotta che si sta sviluppando in Val di Susa – che, per le specifiche del territorio e delle mobilitazioni, non può concepire la presenza e l’azione di un Black bloc, per come lo si è fin qui delineato e per come esso stesso si qualifica – rappresenta un’occasione colta dal movimento, che ha intelligentemente capito che per la valle passa una fetta importante dell’opposizione sociale a questo governo e al sistema in termini più generali. La difesa dei beni comuni, lungi dall’essere una questione puramente locale o, peggio, Nimby, riguarda tutti coloro che si oppongono allo strapotere degli interessi privati.
Questa consapevolezza è presente e viva in Val di Susa, tra chi partecipa agli scontri e la popolazione tutta, che sostiene i rivoltosi. Di “black bloc” neppure l’ombra. Ma se anche ci fossero?

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